La parola libertà mi fa sempre più problema. Senza voler entrare nell’ambito di un dibattitto filosofico che certo sarebbe utile ma ci porterebbe lontano rischiando di non consentire di centrare il problema, vorrei soltanto sottolineare alcune questioni.
Sarebbe ora di usare la parola libertà sapendo di che si tratta e, ancor più, rivendicare diritti di libertà con piena consapevolezza di ciò che questo significa all’interno dei contesti (sempre comunque normati, non fingiamo di non saperlo) all’interno di cui tali rivendicazioni si collocano.
Inutile rivangare la falsa endiade libertà e uguaglianza e men che meno sbeffeggiare l’idea di libertà che certi movimenti e certe ideologie peraltro potentissime (il neo-liberismo evidentemente) propugnano costantemente confidando che l’esercizio di una libertà quasi assoluta porti secondo un meccanicismo tutt’altro che scontato a un’autoregolazione assai dubbia.
Non voglio intervenire su questo versante del problema su cui già in molti e in maniera decisiva han credo fatto sufficiente chiarezza.
Qui si tratta del continuo appello alla libertà che ciascuno di noi fa in ogni aspetto della sua esistenza in un contesto sociale che ci ha venduto un concetto di libertà che fa male.
E’ la libertà corrente, quella nelle relazioni, nelle scelte, nei piccoli contrasti, nella difficoltà dell’intesa. Quella che fa continuamente appello a una libertà individuale che se ne frega totalmente dell’altro. Quella del non invadere i miei spazi, quella dell’ “io voglio essere libero, non devo certo rendere conto a te di quello che faccio”, quella del “è il mio tempo e ne faccio quello che voglio”.
Questa continua rivendicazione di libertà e autonomia dall’altro, specie nelle relazioni amorose, sta diventando una regola. Per carità, nessuna nostalgia per il tempo del possesso ma oggi il minimo tentativo di porre in discussione le agende personali in nome dell’amore o degli affetti profondi sembra un attentato di lesa maestà. “Ho da fare”, “se non ti ho risposto è perché ero occupato”, “smettila di controllarmi”, “io faccio quello che mi pare”, stanno diventando il suggello inquietante di un mondo relazionale dove l’autocentratura è totale, l’empatia moneta sempre più rara, l’autocapitalismo il motore ideale e la deresponsabilizzazione nei confronti della relazione (anche quelle più strette) neppure più un problema, anzi un obiettivo politico.
Non so se quando le femministe dicevano “io sono mia” intendessero questo. Credo proprio di no. Certo è che oggi “io sono mio” spesso diventa “io sono Dio” e avanza pericolosamente come un vessillo di personalità e di forza di personalità ma anche, a mio giudizio, come l’evidente ricaduta di una propaganda ben finalizzata che fa dell’individuo nella sua cella autistica l’unico ideale di vita accettabile.
La destra da sempre rivendica una libertà tanto astratta quanto ovviamente mistificante: la libertà di opprimere, prevaricare, sfruttare gli altri. Ma noi, figli di quella “libertà obbligatoria” di indole francofortese di cui parlava Gaber in un celebre e omonimo spettacolo sembra che non abbiamo più alcuna consapevolezza di cosa significhi rivendicare il diritto alla libertà, se appunto inteso in senso assoluto, non adeguatamente segnato da limiti di relazione, di rispetto, di attenzione reciproca, di empatia e di condivisione. Almeno in un contesto di legami.
La sensazione è che sia proprio il legame a fare problema. Certo, detto da un libertario e da uno che negli anni 70 rivendicava il libero amore può apparire un po’ contraddittorio ma anche Vaneigem si è ricreduto su quella utopia ( e si veda il suo De l’amour). Qui però è in gioco qualcosa d’altro e cioè il legame sociale, il senso di appartenenza, il rispetto e l’attenzione per l’altro, elementi di benessere che si realizzano stando insieme e non fottendosene allegramente dell’altro in quanto oggetto infinitamente fungibile come ogni altra merce.
Il punto è che l’ideologia dell’io al centro, del mondo fatto su misura per me, non lascia spazio per altro. Per l’altro. L’altro è spesso vissuto come un intruso che destabilizza le routine che il soggetto autistico non vuole più mettere in discussione perché lo illudono di un benessere controllabile e non preda delle fluttuazioni della relazione con altro e con l’altro. Ma è un’illusione. E un’illusione mortifera, quella di cui ha ben parlato Gandini a proposito del modello svedese dell’amore.
Ciò che non significa che non si debba fruire di un tasso di libertà e di autonomia significativi in ogni contesto relazionale ma significa anche che debbono essere negoziati, condivisi, concordati.
Non si può dettare legge nelle relazioni solo affermando come indiscutibili le proprie esigenze, altrimenti è il concetto stesso di relazione ad essere posto in causa.
La sensazione è comunque che quei concetti di autoimprenditorialità, di autorealizzazione, di autopromozione, di successo personale, di autonomia ecc. -NON INNOCENTI sul piano ideologico, ma fortemente integrati all’atomizzazione sociale che questo regime capitalistico vuole fortemente e che ci sta portando a divenire un mondo di terminali digitali scorporizzati e anestetizzati, incapaci di vita sociale se non coatta e soprattutto di relazioni significative (spesso ridotte alla negoziazione di brevi contatti sessuali)-, stiano vincendo su tutta la linea.
Quindi, quando parliamo di libertà, siamo cauti, oppure, come si faceva una volta, parliamo di liberazione, liberazione da (e specifichiamo e valutiamo bene da cosa ci stiamo liberando, prima che scivoli via il bambino insieme alla sozzura).