Oggi è necessario studiare e praticare i modi per formare un altro profilo umano. E’ questo il passo da fare ed è per questo che l’educazione risulta centrale in questo processo.
Ma cosa significa orientarsi verso un diverso e più costruttivo profilo umano?
Purtroppo in questi decenni è andato affermandosi sempre di più, a seguito tuttavia di un processo lungo, plurisecolare, un modello di umanità cinica, centrata sull’affermazione del proprio ego, orientata al potere, che ragione solo in termini di utilità e quasi completamente cieca su tutto ciò che non la riguarda direttamente, fredda, calcolatrice, ambiziosa.
L’immaginario che questa umanità brandisce è un immaginario che Gilbert Durand, grande antropologo del mondo simbolico, definirebbe di tipo diurno, fondato sul predominio dei grandi simboli della luminosità, della verticalità e della separazione. In ogni ambito della nostra vita la luce, che sembra sempre più incapace di confrontarsi con le proprie ombre ma anche con la necessaria comprensione dell’ombra che inerisce ad ogni decisione, con l’ambivalenza dei giudizi e con la parte oscura dell’essere umano, domina. Così come dominano ancora i miti della carriera, del successo, dell’affermazione personale ad ogni costo, del denaro e del profitto, che quasi sempre adottano le strategie della separazione, della gerarchia, delle graduatorie, del pensiero analitico e delle sue spaltung, in una una visione della vita schizofrenica e accelerata.
A questo uomo diurno, monomaniacale, freddo e opportunista, sia negli abiti del maschio che della femmina, occorre chiedere di tornare a percepire le cose dal punto di vista della loro finitezza, dei loro limiti, del loro bisogno di essere viste e comprese nelle loro caratteristiche peculiari e quindi di assecondarne le vocazioni, le debolezze, la caducità.
Un immaginario, cioè un modo di guardare a sé stessi e a ciò che ci circonda fondato sull’accoglienza, sulla partecipazione attenta, sulla conciliazione, sull’intimità, sulla cura, sull’ospitalità, un immaginario quindi più notturno, sempre secondo le categorizzazioni di Durand, potrebbe riportare in equilibrio una bilancia della cultura umana e dei suoi comportamenti che diventa ogni minuto più distruttiva, più frettolosa, più violenta, più inconsapevole.
Siamo di fronte allo sfacelo di una lunga fase storica, di un’umanità che nei secoli ha conquistato molte certezze ma ha anche falcidiato le radici stesse su cui poggia, che ha soppiantato le relazioni, sia con gli altri che con la natura che con i luoghi della vita, rafforzando i cammini solitari al fondo dei quali ci sono solo la depressione, l’abuso, le dipendenze.
A questo sfacelo occorre saper guardare con occhi e corpi sensibili, delicati, accurati verso ogni forma di vita e di cultura.
Gli uomini che ci comandano, prodotto del mito dell’economia, del guadagno, di una politica asservita ai centri di potere planetario sono privi di calore, di attenzione, di benevolenza. Guardiamo questi mostri del calcolo, da Draghi a Monti a quasi tutti i protagonisti delle decisioni che contano, questi corpi senza passione, questi sguardi senza colore, queste lingue senza musica se non quella delle statistiche e dell’ironìa, musiche monocordi, tetre, prosciugate di amore.
Una nuova era può cominciare solo dove si apra uno sguardo diverso, a cominciare dai più piccoli, cercando di incamminarli verso vie di crescita che consentano loro di non rinunciare alla loro naturale spontaneità, creatività, sensibilità, curiosità, corporeità, che non li torcano verso la realizzazione monetaria, la competizione, la rinuncia ai propri desideri umani a favore di quelli predicati dall’occupabilità, dallo sfruttamento, dal successo mediale ed economico.
Ci sono forme di realizzazione che invece si radicano nel tessuto delle relazioni paritetiche e solidali, non solo con gli esseri umani ma anche con le cose, i paesaggi, tutti gli esseri viventi, che favoriscono l’intimità con ciò che ci circonda, il senso estetico, l’armonia, la congiunzione con i mondi vitali, senza violentarli, sfruttarli o abusarli.
L’educazione diffusa mira a questo, a rimettere in circolazione una fascia di popolazione che, debitamente accompagnata da quei pochi che ancora non sono stati sopraffatti dalla ragione economica e dal suo attuale regime neoliberista, possa secernere l’elisir delle sue passioni e della sua percezione non ancora sabotata e manipolata dalle molti fonti di annientamento che il capitalismo continua a sfornare, possa cambiare i nostri ritmi, i nostri percorsi, chiamarci tutti ad essere loro fratelli nel conoscere ma anche partecipare alla costruzione di paesaggi umani dove, per esempio, sia prevista la loro libera circolazione anche non accompagnati. Anche solo questo primo obiettivo, culturale, educativo, architettonico, urbanistico, politico a pieno titolo, sarebbe un’enorme rivoluzione.
Ma c’è tanto da fare per ricomporre almeno un poco questo umanesimo schizofrenico con una ragione poetica, che avverta come ferite i disastri che compiamo quotidianamente nel nostro ambiente e nelle nostre relazioni e che si risvegli, conducendoci a tutelare la bellezza, ciò che non produce guadagno ma favorisce relazioni più serene, più orientate all’intesa, la convivenza armoniosa con chi è debole o semplicemente portatore di domande che ci mettono in discussione, con tutto ciò che non rientra nei piani di una “crescita” intesa sempre e solo in senso economico ma che come ben sappiamo significa morte e sfruttamento altrove e dentro di noi.
Vorrei sentire uomini di governo con voci più sensibili, con sguardi più ecumenici, con propensione alla cura invece che all’accumulazione. Voglio sentire un altro linguaggio, nel quale al posto di risultati, prodotti, guadagni, cifre si facesse strada il coraggio di adottare termini ormai considerati irricevibili come amore, amicizia, desiderio, depurati ovviamente dalle incrostazioni cancerogene che l’alchimia invertita più potente del nostro tempo, quella pubblicitaria ovunque deisseminata, ha inoculato in essi.
Occorre bloccare sul nascere chi ci parli ancora di crescita, non tanto e non solo perché è evidente che dobbiamo noi uomini del settore più ricco del pianeta, diminuire i nostri consumi, riorientarli in modo da produrre meno danni possibili intorno a noi, ma anche semplicemente perché per ospitare degnamente i più piccoli e i più in difficoltà, dobbiamo reimparare il limite, l’abbassamento o, come la definiva James Hillman, la “discesa”.
Dobbiamo reimparare a tutelare il morire, il perdere e l’arrendersi, l’errare come forme di vita essenziali, che spesso ci rendono migliori, specie se intorno non ci sono solo dinieghi e giudizi critici o peggio l’indifferenza.
E’ un enorme lavoro da fare, che presuppone un’altra antropologia, non perché il notturno debba a sua volta cancellare il diurno ma perché il diurno abbandonato a sé stesso è puro delirio, distruzione, barbarie.
Come hanno sostenuto tra i migliori pensatori del nostro tempo, come certe guide, anche politiche (non posso non pensare a José Mujica), occorre riformulare radicalmente le nostre mete, gli standard vitali, affermando il diritto di divenire ciò che si è ma all’interno di un contesto dove ogni nostro movimento si interseca con quello di ogni altro e nessuno abbia il diritto di prevaricare nessuno.
Restituire a ogni età ma anche a ogni cultura il piacere di stare dov’è, nel suo tempo e nel suo spazio, godendolo fino in fondo, nelle sue consuetudini, purché non siano appunto distruttive nei confronti di altre. I bambini e gli adolescenti devono poter godere del loro tempo che non torna, non essere proiettati in un futuro che ahinoi assomiglia a quello che le scuole, come luoghi di pena e di detenzione, tatuano sui loro corpi. Gli anziani, e noi tutti, in qualche misura bisognosi sempre di amore molto più che di soldi e appartamenti lussuosi, abbiamo diritto a essere, essere vivi, intensamente vivi, nel bene e nel male, ma comunque attenti, sensibili, sovrani nei nostri corpi e nelle nostre attitudini senza mai deflettere ai principi di solidarietà e partecipazione in assenza dei quali siamo solo macchine destinate alla rottamazione.
In questa prospettiva, che io chiamo di una cultura poetica, amorosa, vitale, occorre mobilitare tutte le nostre energie, non rincorrendo improbabili salvezze personali, ma facendo corpo con il mondo, con le sue ferite, avvertendole e lentamente reimparando a convivere con essere fino a che si convertano nel potere di guarire.