Si moltiplicano le iniziative di coniugazione tra scuola e città, scuola e territorio. Dovrei rallegrarmene ma purtroppo mi è difficile. Almeno fino a che tutte queste iniziative continuano a ribadire la centralità della scuola. Ultima in ordine di tempo, a breve, quella organizzata su scala nazionale da animazione sociale con il contributo della fondazione San Paolo tra pochi giorni ( fondazione San Paolo…).
E’ da tempo immemore che si cerca di mettere in comunicazione scuola e territorio, tutto l’attivismo ne è impregnato ma gli esempi sarebbero molteplici. Il problema è che scuola e esperienza vera, nella città, cozzano pesantemente l’una con l’altra. E’ la scuola il problema, la sua struttura, le sue classi, il suo terribile curricolo ultra cognitivo. Come si fa a fare esperienze autentiche nel territorio con 25 o 30 ragazzi? Che poi devono tornare nelle puteolenti aule scolastiche? Come si fa a conciliare l’esperienza viva con le materie ossificate, con le prove, con gli esami?
Inutile stare a ribadirlo, ormai lo scrivo da anni e anni, scuola e vita (vita autentica, intensa, desiderabile), sono due cose che non vanno insieme.
Quindi mi fanno sorridere e anche un po’ rabbia cose tipo le “scuole sconfinate”, dove chissà come si radunano pedagoghi di ogni risma, inneggiando a un’espressione che a me mette angoscia: “scuola sconfinata”, come se tutto dovesse divenire scuola, oltre ogni confine, qualcosa che rima con l’incubo che già il mio maestro Riccardo Massa evocava quando parlava di “pedagogizzazione” della società.
Come sempre si vuole cambiare tutto per non cambiare niente. Bisogna essere chiari, dopo decenni e decenni di tentativi abortiti. Per cambiare l’educazione dei ragazzi occorre superare la scuola e tutto il suo pesantissimo armamentario di strutture, codici, materie e norme.
I ragazzi amano riunirsi in bande, di sei o sette. In un gruppo di queste dimensione ci si può muovere per la città e vivere esperienze, non in trenta come i turisti giapponesi con la bandierina.
Bisogna sostituire le aule con case vere, con basi, tane, covi, non più di quindici ragazzi con i loro educatori, pronti a sguinzagliarli a gruppi nel mondo, a contatto con tutte le esperienze che offre, con le idee chiare su quali sono le priorità dei bambini e dei ragazzi, che certo non sono quelle della grammatica latina o delle equazioni di secondo grado. Arriveranno anche quelle ma quando se ne presenterà la necessità, a partire dall’esperienza, dall’esperienza viva.
Non sto a ripetere cosa sia l’educazione diffusa, ne abbiamo scritto, Giuseppe Campagnoli ed io, già molto. Ma il fatto che si chiami educazione diffusa e non scuola diffusa non è una banalità, non è una svista.
E’ che occorre farla finita con il concetto di scuola, che ad onta del suo etimo sicuramente edificante, è di fatto quella cosa che tutti noi abbiamo purtroppo dovuto frequentare sacrificando molto del nostro tempo e della nostra vitalità di bambini e adolescenti, la scuola è quegli edifici spesso fatiscenti, quelle aule e quei corridoi da cui si esce tramortiti e educastrati.
Parlare di educazione diffusa è altro, è farla finita con la scuola e aprirsi veramente al mondo, con le giuste mediazioni certo, con percorsi pensati ma pensati da educatori che sanno chi sono e cosa possono fare bambini e ragazzi e che non intendono imporgli apprendimenti al di fuori del loro orizzonte umano, delle loro attrazioni, delle loro aspettative.
Non è un caso che in queste ammucchiate di scuola e… l’educazione diffusa non sia mai presente. Noi siamo presenti là dove si vuole un vero cambiamento, non la solita panacea all’italiana dove si dice di voler cambiare tutto per non cambiare niente, secondo il principio cardine del gattopardo.
Noi vogliamo cambiare davvero, noi non ribadiamo la centralità della scuola ma la centralità della vita dei bambini e dei ragazzi, della loro voglia di vivere e partecipare, di contribuire e di sperimentare non al chiuso di vecchie aule ma nel mondo reale, con tutto quello che esso porta con sé, nel bene e nel male. Anche per migliorarlo e per essere presenti in esso, non deportati negli spazi concentrazionari cui sembra abbiamo voluto sadicamente destinarli.
E’ ora di discutere di questo, di mettere alla prova chi resta comunque attaccato, come una mosca alla carta moschicida, all’idea di scuola e a chi invece immagina un mondo di nuovo percorso da bambini e ragazzi, pronti a ritornare ad esserne protagonisti, chiamando tutti a farsi portatori di saperi e di voglia di condividere almeno una parte del loro tempo con loro, come dovrebbe essere in un mondo non segmentato e scisso in tante celle separate ma in un mondo organico, un organismo vivente e non una fabbrica di pezzi da incastrare nell’ingranaggio dello sfruttamento.