Talvolta, quando entro in una scuola, o meglio, quasi sempre, sono colto da un disagio, una fitta di tristezza. Qualcosa che sconfina con il senso di morte. Mi capita anche quando attraverso o passo accanto a un parco giochi vuoto, deserto. C’è qualcosa di sinistro nei luoghi dell’infanzia?
Mi viene in mente un’immagine del film di Franco Piavoli Pianeta azzurro, la traccia lasciata nel folto dell’erba dai corpi di due adolescenti che hanno amoreggiato. L’erba, il frumento schiacciato, nessuno sgomento, al contrario, una traccia viva. Vorrei potermi sdraiare lì e avvertire il loro odore, mi sentirei protetto.
Cosa c’è di così sinistro in un parco giochi da farne un topos dei film d’orrore, altalene che cigolano spinte dal vento, un cavallo di plastica dallo sguardo vuoto? Niente di questo in una stanza dove in giochi dei bambini giacciono abbandonati sul pavimento, nel loro disordine.
Cammino per le scuole, i loro corridoi dove echeggiano ancora i versi dei piccoli detenuti, le scale, i muri biancastri con i loro brutti disegni, le finestre di alluminio, sporche. La palestra, un luogo agghiacciante, con quel linoleum marrone. Le aule, carcasse di sedie e banchi senza niente più che la loro stitica funzione. Più ancora mi agghiaccia, qualche volta mi è capitato, assistere allo spettacolo di maestre o maestri che guidano un corteo di bambini in fila per due verso l’uscita o di qualche fuga solitaria di un piccoletto verso il bagno, ansioso.
Vorrei andarmene subito, uscire, respirare. C’è un’aria infetta, soffocante, figure di bidelli con orrendi grembiuli, le luci sinistre dei neon nelle zone più buie, i bagni con le porte imbrattate di scritte.
No, non v’è nulla nella scuola che prolunghi l’odore dolciastro ma consolante della cameretta d’infanzia, dei suoi giochi disordinati e delle lotte giocate sul tappeto con qualche amichetto o amichetta in visita. Un terribile iato tra il grembo caldo e accogliente della stanzetta propria (e sippur talora condivisa con inviso fratello o sorella) e lo squallore labirintico, fitto di gridi e di scricchiolii di gessi, appestato dagli igienizzanti e dalla luminosità funebre dei neon delle scuole.
Non mi convince per nulla il godimento degli psicanali nel constatare che il taglio dalla melliflua polpa del maternage lascia luogo alle a lor dire paterne scuole che più che paterne appaiono orcagne (laddove invece l’unico taglio sensato sarebbe semplicemente approcciar la corte e poi assaporar la strada dove esercitar le doti che d’ogni bambino fanno quello ch’è: curiosità, stupore, gioco e avventura).
I luoghi artificiosi per in bambini rattristano perché son falsi e imbrigliano la loro energia in rigori ottusi, i loro gesti in discipline, la loro fantasia in ripetizioni. Se già i parchi gioco sono sempre più recinti per bestioline arrabbiate cui concedere un ben mesto sfogo su giostrine, scivolini, trapezietti e altalenine così basse che neppur quasi possan sollevare i piedi da terra (il tutto ben radicato in pavimenti gommosi acciocché non accada prendere pesti o sbucciarsi), le scuole ovviamente son ben peggio: veri e proprio riformatori obbligatori in cui si celebra il rito del culculo come l’avrebbe definito il Gombrovitch nel suo imperdibile Ferdydurke: e cioè l’addomesticamento, la piegatura ortogonale atta a subire sempre e comunque, l’obbedienza, la punizione, l’introduzione di pietanze di nessunsapore e nessun pregio per la sete di vita di un bimbo giunto colì (al che meglio sarebbe di gran lunga cadere nelle mani di una qualsiasi coppia tipo gatto e volpe o di un mangiafuoco pieno di sgargianti promesse).
Ma donde nasce il feticismo di questo luogo che di tanti, quasi tutti, annebbia le menti al punto da renderle dipendenti da questo costrutto ignobile che imbratta l’estetica delle nostre città e ammala la nostra progenie?
Perché? Perché? Perché? Forse perché, bene o male (e spesso più male che bene) si è consumato di ognun di noi comunque la “pericolosa infanzia” (cit. Savinio)? Perché color che di lì più piegati e orbi (cioè assuefatti) uscirono son poi quelli che continuano ad abitarle, a perdurarle ed onorarle, mentre color che ne furono buggerati e vaccinati ben si guardano anche solo dal passarvi accanto e si son dati a carriere che di psico e di peda neppure una macchia sia rimasta?
Perché anche genitori che pur rimembrano la noia, il soffocamento, l’intimazione a non essere continuano a mandarvi i lor virgulti assecondando un obbligo non poi così ineludibile(forse per un inconscio moto vendicativo che sussurra se l’ho passato io lo passerai bene anche tu, bastardo!)?
Quale gigantesco trave ingombra il guardo di coloro che si ostinano a ripetere che comunque la scuola è il baluardo inamovibile della nostra educazione ad onta dei suoi fallimenti, delle pene e dei malanni che suscitano e dell’obbrobrio morale che sancisce? Giacché in essa ogni traccia di libertà (parola espunta) ma neppure di democrazia (si decida almeno insieme il che fare o lo si possa almeno discutere e, nel caso, rifiutare!) o di autentica partecipazione mai vi compare se non come parenesi di un mondo a venire che sarà anche ben peggio ed allora è bene impararlo subito, in modo da essere culculizzati a dovere e non piatire più ansie maligne di altrove?
O abiette menti che della scuola fate feticcio, non riuscite a immaginare altro paesaggio ove bimbi e bimbette, ragazze e monelli possa imparare e vivere e giocare e esprimersi e sperimentare da quello angusto e malefico delle nostre scuole? Per esempio il quartiere, con i suoi molti loci di ventura, dai negozi alle officine, dai campetti alle piazze, dai sentieri ai parchi, dalle botteghe d’artigiano (laddove resistano) alle sale da concerto, ai capannoni, ai palchi, alle cantine buie dove noi… e via discorrendo?
Hanno diritto queste nostre progenie di vivere o debbono essere messi agli arresti subito? S’impara dalla vita o dal claustrale ordinamento di cattedre banchi e lavagne?
I feticci paiono oggetti parziali, secondo il gran vate della psicoanalisi Sigismondo, che sembra vadano a sostituire preocemente quella cosa che non si può guardare e ne faccian vece, con esiti eccitatori nella sfera sessuale. Forse che a scuola avete visto sotto la vestina della compagnuccia o della maestra apparire il sacro monile e viceversa e, non potendone sostenere il guardo vi siete volti a banchi e latrine scolastiche per trarvi eccitamento spurio? Altrimenti resta inspiegabile questo attaccamento che colgo anche in persone di sicura sensibilità e intelligenza.
Non si può spiegare come tutta una pletora di pedagoghi e maestri (così li si chiama) e intellettuali anche veramente ingegnosi il feticcio della scuola mai abbiano abbandonato, né perché tanto affetto per quelle miserande aule, per quei banchi che giustamente il Cattelan ha reso quello che sono, dispositivi di tortura nel suo celebre Charlie non fa il surf di Coppoliana memoria.
E’ ora di dire basta a tutto questo.
Lo si capisce nel gesuita, cresciuto a bacchettate sulle dita e sul culo, lo si può capire nell’autolesionista, che al posto di quello del padre ha saputo ereditare il flagello dei maestri e dei professori senza batter ciglio, e ancora persino in qualche testa d’uovo spuntata nei covili dove non sorge mai il sole né accade la menoma avventura. Ma negli spiriti vitali (ce ne sono ancora???) non sorge il dubbio che sia venuta l’ora di sbarazzarsi senza remora, sottolineo, senza remora, di questo apparecchiaccio che solo un perfido e pervertito feticismo vuol mantenere e che ad esso basti qualche insipida revisione per diventare l’isola che non c’è: togli i voti metti i giudizi, gira i banchi, illumina le lavagne, metti il registro elettronico, inserisci lo psicologo che li fa tutti dis-, fai lo sportello d’ascolto ( e ce ne vorrebbe eh se solo qualcuno avesse voglia di parlare!), fai l’autonomia scolastica, porta l’educatore, fai il giro del cortile e ogni tanto vai anche al museo e al parchetto, magari per ripetere il Pascoli che fa scilp scilp alla rondinella…
No, basta, diciamo basta a questo cenotafio di un passato dimentico della natura viva e sanguigna della giovinezza. Prendiamo delle belle ruspe, spianiamo e facciamo l’educazione diffusa!