Uno dei grandi tabù del nostro tempo educativo è diventata la strada. In una specie di moto all’incontrario rispetto ai decenni precedenti, contrario e progressivo. Ai bambini e ai ragazzi in movimento nelle strade e nei quartieri delle città degli inizi del 900 e ancora almeno fino agli anni 70, si è sostituito progressivamente il terrorismo della strada, non più ospitale nei confronti dei piccoli. I cortili si sono svuotati, le piazze sono attraversabili dai bambini solo accompagnati, i circhi evacuati in periferia o semplicemente annientati, le giostrine di quartiere azzerate, i venditori ambulanti estromessi. La strada è diventata un luogo di pericolo, di esposizione al male in tutte le sue forme e può essere vissuta dai piccoli solo se accompagnati. Le biciclette sono quasi sparite, soprattutto dai grandi centri urbani, i pattini e i veicoli a pedali accantonati. Resistono in qualche recinto protetto o in qualche piazza con larghi spiazzi pedonali gli skate-board, preda di una popolazione di giovani che sbattono e saltano avanti e indietro in una specie di moto sul posto, senza destinazione e senza sbocco, come certe galline in certi giochi meccanici.
Occorre riprendersi la strada e occorre rivendicarne l’suo ad opera dei bambini e dei ragazzi perché la strada è il teatro del mondo, il suo scenario privilegiato, il luogo degli incontri, delle sorprese e scoperte.
Città senza stormi di bambini e adolescenti che le solcano con i loro mezzi mercuriali, senza bande di teppistelli e di incursori che le animano con il loro vociare e i loro ormoni in fregola, sono mortori, viali del tramonto e dell’agonia della vita urbana.
Ma le strade vanno rivendicate anzitutto come spazi di esperienza, di educazione diffusa. Non solo parchi ancora una volta protetti e bonificati, ma proprio le strade, le piazze, i giardinetti in mezzo all’asfalto, perché è lì che l’infanzia svolge il suo ruolo di risveglio, di all’erta sociale, di presenza viva e vitale, colorata e imprevedibile. Occorre rivendicare che i mezzi sposta-merci (sposta-merda) che hanno invaso il nostro spazio contengano la loro disforica corsa nello spazio urbano, che siano deviati o obbligati a velocità da lumaca per consentire di nuovo anche ai più piccoli di invadere la strada.
Alla corsa nel bosco e nelle campagne, sempre lontane dalla civiltà e dai luoghi del potere, sulla cui salubrità un po’ eufemizzata non discuto ma sulla cui totale incapacità di incidere sul reale chiedo di porre attenzione, vorrei contrapporre l’invasione della città del popolo dei bambini e degli adolescenti, perché la vivano, la conoscano, la sperimentino. Come diceva Paul Goodman nel 1942: ““Invece di portare all’interno di un edificio scolastico frammenti che riproducono la città, camminiamo col nostro passo lì fuori, tra le cose reali. Ciò che vorrei vedere in giro sono gruppi di bambini, una mezza dozzina, tra i 9 e i 10 anni: li immagino girovagare per la Città Impero con una guida che li protegga, accumulando esperienze fatte su misura per loro.” (Goodman, Grand Piano, cit. in Ward, p.103).
Il vagare nietzschano, il vagabondaggio alla Hucklberry Finn, le bande e le gang di ragazzi (anche senza guida, oppure sospinte solo da mèntori purchè siano di razza selvatica) alla riconquista dello spazio e del tempo vitale della città, il pattugliamento festoso che inaugura pratiche come quella dei limonatori spietati (come ho già proposto nelle mie suggestioni di gaia educazione diffusa e che ha subito fatto storcere il naso ai patetici sepolcri annebbiati di moralizzatori, mezze monache, inquisitori che hanno perso il treno dell’ultima crociata e via dicendo), di abbracciatori, di incursori appostati per intercettare le omissioni adulte, per prendersi cura del marginale, la marginalità stessa dell’infanzia come festa dei sensi esposta a tutti, con i loro gadgets, i loro animaletti, il loro senso tutto personale della pulizia e della sporcizia. Bambini e ragazzi nella strada a intercettare occasioni di esperienza, che incontrano e fermano l’uomo affaccendato, lo obbligano a sostare, a raccontarsi, che invadono il bar, l’officina , il supermarket per fotografare il mondo autoreferenziale e chiamarlo a risvegliarsi, che fanno domande sbagliate e sconvolgenti, che fissano con riprovazione che non dà l’elemosina, che collaborano con gli zingari e senza fissa dimora, che parlano con le prostitute, che portano fiori, piantano vegetazione, curanop le aiole per poi devastarle, che si tuffano nelle fontane e prendono il sole sui piedistalli delle grandi sculture, che si muovono a zig zag mandando in cortocircuito il traffico. Insomma l’infanzia che compie la sua opera di salvezza, richiamare alla vita, alla festa, alla diserzione, al cibo, alla dimenticanza del dovere e all’attenzione per ciò che sempre sfugge e chiede aiuto o solo riconoscimento.
Bisogna uscire nella strada e smetterla di imputridire nelle case, nelle aule, negli studi dei dentisti e nelle palestre, ci vogliono le altalene gigantesche immaginate da Wenders in Così lontano così vicino, rimettere i giochi davvero affascinanti e pericolosi a strapiombo sulla città, il trekking aereo sopra i viali del consumo, il parcheggio di go-kart davanti a Cartier, riprendersi il gusto di acchiappare il tram al volo restituendo agli stessi il predellino e il troller. Pulmini aperti a bassa velocità che attraversano le strade, tapisroulant dove possibile, ponticelli per varcare i viali a più massiccio flusso di traffico, non senza sputare sulle macchine che passano sotto.
Bambini e ragazzi vanno iniettati nel corpo della città perché riprenda a vivere, in agonia e dialisi come è ormai ridotta a causa dell’idiozia adulta e dell’autodafé produttivistico. Saranno loro, come già sappiamo, se non li lobotizziamo con la tecnologia e l’immobilità, a salvare quel poco di vivo che ancora resiste in noi.
Concretamente occorra che coloro che hanno ancora sguardo e buona volontà, in un mondo di psicotici e disillusi, promuovano l’educazione diffusa, costituiscano comitati per la “riappropriazione delle strade e delle piazze”, magari anche a orari, sollecitino tutti gli interlocutori (a cominciare da quelli municipali per poi passare alle associazioni laiche ecc, alla larga preti e oratori) perché sia restituito il diritto dei bambini e dei ragazzi a muoversi liberamente sul suolo pubblico ed eventualmente ad occuparlo con attività a loro consone senza bisogno di permessi e di altre diavolerie.
E che piano piano si cominci a rimettere in circolazione questa mondo recluso, magari guardandolo da lontano all’inizio, coinvolgendolo in iniziative intelligenti e stimolanti, come riattivare un giardino, creare spazi giochi pensati da loro, attrezzare palchi e strutture per spettacoli o solo per provare ed esercitarsi, riabitare spazi in disuso riarredandoli e personalizzandoli per i propri scopi, aprendo alberghi dell’amore per adolescenti con tutto il necessaire per scongiurare la paura di gravidanze indesiderate delle tate marie sempre all’erta, aprire saloni di massaggio, gioco, educazione affettiva e sessuale, cinema e teatro, danza e arti circensi, arti marziali ove bambini e ragazzi entrino gratuitamente e possano usufruire di tutto ciò che a loro possa essere utile per riprendere possesso del loro tempo ma anzitutto della strada. Guardandosi bene dal costituire servizi di sorveglianza e accompagnamento o di meritorie iniziative della noia di cui gli adulti sono formidabili architetti.
Lasciando loro semmai il compito di assicurare un minimo di sicurezza per in bambini più piccoli (gli adolescenti potrebbero farlo benissimo, magari indossando divise da accompagnatori ufficiali) e soprattutto il compito di dare forma a un paesaggio che puzza solo dell’odioso e acido afrore del lavoro, della produzione e del saccheggio della vita e della bellezza di cui gli adulti sono straordinari professionisti.
Gli adulti sufficientemente selvatici possono poi partecipare alle attività dei ragazzi, qualcuno anche con suggerimenti, se ne ha, democraticamente seguiti dai ragazzi stessi in una città che comunque deve mirare ad integrare i popoli anagrafici, stando bene alla larga da repubbliche dei ragazzi o altre bambinopoli senza capo né coda.