Negli ultimi anni si è affermata, non senza ragione, la pedagogia della natura. Asili nel bosco, scuole all’aperto, outdoor in tutte le forme. Una proliferazione di esperienze, di pratiche e di proposte che va a riempire la sempre più avvertita necessità di liberare i bambini (specialmente loro a quanto pare) dal giogo scolastico e soprattutto della implacabile reclusione tra quattro mura, per giunta brutte e inospitali.
Un moto che non si può che sottoscrivere, seppure con alcune precisazioni.
In particolar modo per ciò che attiene la nozione di natura. Il ritorno alla natura nell’educazione, peraltro non certo una cosa nuova se si fa un po’ di geologia pedagogica da Froebel a Pestalozzi a Tolstoj alle scuole attive e compagnia cantando.
E tuttavia risalta un’eulogizzazione dell’espressione natura che a mio giudizio finisce per fare di quest’educazione ancora una volta una cura palliativa e non un’autentica restituzione del percorso di formazione ad una transazione con la natura profonda (che non ha a che vedere con l’ecologia profonda) che ne recuperi i significati radicali e vitali.
Purtroppo in molte delle esperienze che si muovono in questa direzione, la natura è intesa in un senso piuttosto bucolico, una sorta di eden perduto, di paradeisos arabo, una natura ampiamente addomesticata (quale è con tutta evidenza la natura che resiste nel nostro mondo iperantropizzato), bonificata del suo lato selvaggio ma anche della sua componente avversa e distruttiva. Ritornare alla natura si traduce a mio giudizio troppo spesso in un allargamento del giardinetto scolastico alla radura, al parco, alla gita in una montagna o in un mare totalmente deprivati della loro carica imprevedibile, trasformativa, impenetrabile e riottosa al contatto umano.
Non solo, una natura ridotta a parco giochi è una risposta debole a un bisogno di natura che dovrebbe comprendere in questa nozione anche la dimensione selvatica interna della personalità umana, il suo lato dionisiaco, erotico, il suo aspetto indomabile e feroce, la sua istintività.
Una autentica pedagogia della natura dovrebbe portare bambini e ragazzi non solo a contatto con la vegetazione e gli animali della bella fattoria ma anche con le sue asperità, con la fauna selvatica, con le sue tormente, con i suoi picchi e le sue forre, con le sue dimensioni abissali e con la sua pericolosità, allo stesso modo in cui ritrovare la propria natura dovrebbe concernere il rientrare in contatto con le proprie pulsioni profonde, con il proprio lato selvaggio, con la propensione all’avventura e alla sfida, con la lotta, il desiderio scatenato, l’ebbrezza derivante dalla scoperta del proprio lato animale, vegetale, terrestre.
Qualcosa da dire sull’educazione in natura ce l’avrebbe quello splendido film che Werner Herzog ha dedicato alla figura di Timothy Treadwell, Grizzly man. Un film dove il protagonista scopre nella natura selvaggia e nei più ancora selvaggi ed enormi orsi dell’Alaska una cura contro la depressione e l’alcolismo, dove riscopre un enorme fonte profonda di amore per questi giganti incomprensibili così come per il loro ambiente totalmente deumanizzato, salvo però venirne divorato con la compagna alla fine di una delle stagioni che ha vissuto accanto a loro.
Di quale filosofia della natura sono impregnati questi percorsi accattivanti, che scomodano talora e neppure a torto la neuropsichiatria, assecondando un adagio però piuttosto banale per cui sole, aria aperta e un tuffo nel verde leniscono (il che è anche vero) ma rischiano di essere solo un palliativo al disastro di cemento e alluminio delle nostre città?
Sono consapevoli di Lucrezio, di Leopardi o si cullano in certi idilli in cui la natura è solo ornamento e paesaggio più o meno addomesticato, che il regista del giardino sia di scuola inglese, giapponese o italiano?
Cercano la natura romantica, quella di Novalis e Schiller e dei fratelli Schlegel o quella di Friedrich e Hölderlin? Da chi si fanno ispirare? da Von Stuck e da Böcklin? Da Turner, Nolde o Soutine? Perché ciascuno di questi ultimi artisti, come molti altri, ci affida un volto diverso della natura, di volta in volta dionisiaca e indomabile, convulsiva e distruttiva, cupa e ferale, luminosa e trionfante, immensa e incontenibile, violenta, feroce, maestosa. La natura è vita e morte, è un ciclo che le grandi tradizioni della filosofia della natura hanno posto sotto il segno della morte e della rinascita, nell’alchimia, nei cicli lunari, nel mito di Persefone e in tutte le epopee della Dea madre che uccide e si accoppia con il figlio (Ishtar Tammuz, Iside Osiride ecc.)
Chi c’è dietro la pedagogia nel bosco, forse il marchese De Sade e Spinoza? O invece Rousseau e Goethe, o qualche lacerto dell’epistemologia evoluzionistica più recente in cui il sapiens diventa niente più che un incidente di percorso? Chi è l’uomo nei confronti della natura, come si deve comportare, quel è l’etica che impronta queste pedagogie della natura?
Le leggi della natura sono spietate come per De Sade e dunque assecondarle autorizza a tutto (gli eroi di Sade sono dei grandi assertori delle leggi spinoziane o Lemettriane della natura) oppure affidarsi al selvatico, alla natura non può che giovare, come sostenne Rousseau, (salvo poi mettere il povero Emilio sotto il soffocante controllo del suo precettore) o come sostengono tanti filoni di neoselvatici, da Pinkola Estes a Robert Bly a Claudio Risé?
Occorre sciogliere questi nodi credo, perché altrimenti si parla e si opera a vanvera, senza cogliere la vera (contro)educazione che è quella di andare “fino all’estremo” come diceva Rilke e davvero “succhiare tutto il midollo della vita” per riprendere Thoreau, altro autore assai bazzicato da certi educatori sivestri con un po’ troppa precipitazione.
Per carità, comprendo bene che portare bambini e adolescenti nella natura (ripeto quegli scarti lasciati dalla cementificazione quella sì selvaggia che ci sono ancora nel nostro paese), sia confortante. E’ una natura benigna, ormai quasi completamente bonificata da creature pericolose, dall’insidia di perdersi o di farsi male. Anche se, a ben vedere, il buon educatore della natura un po’ di pericolo ce lo metterebbe, almeno per non rendere l’esperienza noiosa come una gita al museo.
E tuttavia occorrerebbe riportare la natura all’ordine del giorno di una filosofia dell’educazione che abbia il coraggio di rivendicarla ovunque, come componente essenziale della vita, come elemento profondo di ciascuno e di tutto, come dialettica tra caos e cosmo, tra vittima e carnefice, produzione e distruzione, sesso e morte, pace e violenza, crescita e caducità.
Senza questa consapevolezza, senza questo radicamento, con tutte le conseguenze che ne seguono, anche operativamente, la pedagogia nel bosco rischia di essere un’ennesima eufemizzazione e pacificazione soporifera dell’avventura vitale, della sua intensità e della sua rischiosa potenza.