Mi capita talora di leggere qualcosa scritto da sedicenti intellettuali di sinistra in materia di educazione. Sono molti anni che in materia di educazione e soprattutto di scuola parla chiunque, scrittori (soprattutto, specie se insegnanti, dalla Mastrocola a Lodoli), psicologi (da Recalcati a Crepet), giornalisti e filosofi più o meno plenipotenziari (da Galli della Loggia a Cacciari) e così via, per lo più dicendo enormi sciocchezze.
Il guaio è che, essendo vip e vippetti, fanno opinione comune, ahinoi.
Intendiamoci, non che se parlassero illustri accademici in pedagogia il dibattito farebbe grandi progressi, nella maggior parte dei casi ma almeno si potrebbe ipotizzare (non sempre con certezza) che sappiano di cosa parlano.
In questo caso specifico l’intellettuale in questione (Raimo), uno scrittore tanto per cambiare, che ha al suo attivo (nel suo curricolo) un paio di volumetti che si interessano di educazione pubblicati dalle case editrici importanti, quelle che editano ciò che piace alla gente che piace, se la prende con un educatore (Mai).
In maniera spietata, giacobina direi, tanto per indicare chi si intende di processi sommari e di teste tagliate un tanto al chilo.
Ora, sia chiaro che io non sono amico o nemico personalmente né dell’uno né dell’altro. Ma mi spiace il tono, e anche il merito.
Anzitutto costui, lo scrittore, se la prende con l’educatore mettendo alla berlina tutto ciò che lo possa screditare agli occhi del bel mondo paludato degli accademici e dei catoni censori. Per esempio facendo notare, abbastanza miserabilmente (ai miei occhi), il suo curricolo e quello della sua compagna, rei di non avere titoli accademici, elenchi di pubblicazioni “scientifiche” e insomma di essere solo gente che ha esperienza di bambini (chi come educatore, chi come mamma).
Trovo quanto meno inopportuno questo stile, anche perché vorrei ricordare al lume che tanti grandi educatori (quelli che davvero hanno cambiato la storia dell’educazione), erano appunto degli educatori e non dei dottori di ricerca né dei professori universitari (don Lorenzo Milani rifiutò di iscriversi all’università, Mario Lodi aveva il diploma magistrale, Capitini era autodidatta ecc.).
Il nostro rinfaccia all’educatore di aver scritto un libretto nel quale non compare bibliografia e i riferimenti appaiono casuali. Intanto semmai bisognerebbe prendersela con gli editori, che pubblicano un libro privo di questi elementi accademicamente indispensabili ma però ancora mi pare un modo di screditare le idee piuttosto tradizionalista, tipico di una categoria di intellettuali, che pur scrivendo quotidianamente su giornali e riviste e guardandosi bene dal riferire le loro fonti (ho parecchi esempi piuttosto interessanti in merito), fanno le pulci poi a chi diffonde una letteratura popolare, indirizzata a chi poco si interessa di bibliografie e citazioni, il cui scopo è solo quello di promuovere idee, di mobilitare energie e di esemplificare pratiche.
L’ho fatto anch’io talvolta (omettere bibliografie e citazioni), benché ordinario accademico, in parte per pura provocazione verso un contesto ormai solo preoccupato del numero di bibliografie e citazioni (se possibile in inglese) a prescindere dal contenuto, in parte perché i libri che scrivo li leggono soprattutto i miei studenti. E se voglio risvegliare qualcosa in loro che non sia solo il rifiuto e la noia, costringendoli a incespicare ogni due righe in venti di citazioni e note che interessano solo a me e alle riviste in fascia A, devo organizzare un discorso, come peraltro fa di solito benissimo anche il nostro scrittore (salvo qualche ammiccamento ad autori di sicura presa), un po’ più liscio e appetibile.
Ora l’educatore non è un genio, è evidente, specie sotto il profilo della scrittura. E’ vero, sostenere che nel tipo di educazione perseguita dall’educatore outdoor, si coltivano le competenze apprezzate nelle multinazionali, sa di colossale ingenuità (politicamente parlando, sempre poi che all’educatore questa sfumatura politica interessi più di tanto).
Ma, a dire il vero, non è molto diverso da ciò che dicono ben più autorevoli pedagogisti e politici anche di sinistra, recitando il quotidiano peana sulle skill necessarie a inserirsi nel mercato del lavoro e, in special modo, delle imprese, sempre più azioniste di maggioranza nella nostra istruzione pubblica, sulla occupabilità, una delle parole più infime che mai sia uscita dalla bocca e dalla penna di autorevoli sociologi, pedagoghi e economisti educativi, e capitale umano.
Però c’è dell’altro. Il nostro educatore, che, insisto, non conosco se non per averlo incrociato in un paio di iniziative pedagogiche come relatore, pare in combutta con altro educatore che coltiva relazioni con figure equivoche del mondo politico-educativo. Nella fattispecie il ministro Bianchi, dal quale, peraltro, anch’io mi terrei alla larga. Quindi, ne deduce il nostro, in realtà costoro fanno parte di un piano per disperdere il patrimonio della scuola pubblica, per distruggere l’apprendimento scolastico come dio vuole e soprattutto a favore di un’iniziativa privata che distruggerà l’ultimo baluardo della nostra democrazia, appunto la scuola pubblica.
Chiaro che questi sono argomenti seri, con i quali l’educatore avrebbe dovuto misurarsi, se non altro in termini di consapevolezza che evidentemente dimostra di non possedere.
Eppure. Intanto la scuola pubblica. Molti sono aggrappati a questa parola come se fosse l’ultimo appiglio della cultura di sinistra in Italia. Personalmente, e molto modestamente però, vorrei metterli in guardia. La scuola è certamente pubblica perché viene pagata con le tasse dei cittadini. Ma dire che si tratti di un bene comune, come sarebbe più appropriato dire, mi pare piuttosto fallace. La scuola è un dispositivo normativo e disciplinare (non cito i riferimenti per carità di patria) gestito, amministrato e governato dagli apparati di potere, che sono anche espressione dei cittadini ma che bellamente se ne impippano degli autentici interessi della popolazione, quella minorenne in particolare.
Dovremmo piuttosto esigere l’educazione come “bene comune” iniziando quanto prima a farcene carico tutti, nella società, nel disegno dei nostri territori, rendendoli accoglienti e esplorabili da bambini e ragazzi e soprattutto cooperando per farli diventare luoghi di esperienze vitali, autentiche, appassionanti.
Non ho bisogno di elencare decine e decine di volumi che hanno raso al suolo ogni fondamento educativo, umano, vitale delle nostre scuole da un punto di vista strutturale (diciamo da Foucault a Althusser, a Illich a Schérer ecc.) a una buona parte degli autori anche citati dal nostro (non tutti, non facciamo di ogni erba un fascio, don Milani non è Codignola né Mario Lodi è Maria Montessori né Dewey è poi questo straordinario riferimento se si pensa a ciò che ebbe a dirne un intellettualucolo come Max Horkheimer quando ancora si distingueva tra filosofie positiviste e pragmatiste e filosofie umaniste e per esempio marxismo (ma son dibattiti superati evidentemente).
E poi va bene Freinet ma perché allora non Ferrière o Décroly, perché non Lapassade e la sua “autogestione pedagogica” o Fernand Deligny e i suoi “vagabondi efficaci”? beh no, questi ultimi sono troppo estremi per il nostro, che se riesce a concepire un rinnovamento della scuola (a proposito Giuseppina Pizzigoni ha creato una scuola che si chiama Rinnovata e non Umanitaria) è solo “dall’interno della scuola”.
Beh, un vero rivoluzionario. A seguire lui stiamo freschi, visto che viviamo nel paese che, a onta di aver avuto tra i suoi connazionali figure come appunto quelle citate ha di fatto un sistema scolastico pubblico (in parte poi finanziatore delle privatissime scuole cattoliche) dall’interno sostanzialmente inamovibile. E che certo non ha fatto sue, se non per l’iniziativa di insegnanti (singoli) e dirigenti (singoli) coraggiosi, o di quartieri coraggiosi e paesi coraggiosi (Cenci) né il modello Montessori, né Freinet, né Mario Lodi, né il modello Malaguzzi, molto più conosciuto all’estero che qui.
Ma avanti con il rinnovamento dall’interno! Potremo restare con banchi, lavagne e aule repellenti per altri centovent’anni, se non sarà tutto spazzato via dal digitale. Sembra che al nostro però interessi molto la nozione di apprendimento e che ritenga che la scuola sia l’unico luogo dove avviene (o dovrebbe avvenire) l’apprendimento (povero Illich, lo so, non ti agitare nella tomba).
Beh, notifico al nostro che sul termine apprendimento si potrebbe intavolare una discussione da mille e una notte e stilare una bibliografia da migliaia di volumi. E che l’apprendimento che avviene nelle scuole è incredibilmente scadente e sempre lo sarà anche soltanto se non decidiamo di liberare i nostri bambini e i nostri ragazzi dalla imposizione del sapere, dalla rigidità delle posture e dai protocolli di valutazione (per dire tre tra le mille cose che impediscono ogni serio apprendimento in quel luogo del tutto disadatto, favorendo altresì mille altri apprendimenti “sotto banco” come sottolineò il professore con cui mi laureai e mi addottorai, Riccardo Massa, tra i quali come farla in barba ai professori, falsificare firme (presto anche quelle digitali), bigiare, fumare e copulare nei bagni e bullizzare o essere bullizzati senza troppi danni dai compagni che cocostruiscono la “comunità educante” (altra espressione insidiosa sulla quale non mi soffermo salvo ricordare che un testo di Don Giussani portava questo titolo, a proposito di politica)).
Al nostro dà fastidio anche il termine “pedagogia viva” (dice che non ha sufficiente pedigree). Beh certo lui predilige quella morta che da decenni ci impone la didattica scolastica contenutistica e sanzionatoria. Ben per lui e per il rinnovamento che auspica (anche se non si sa quale sia).
A me pedagogia viva non fa schifo né mi sembra più inquietante di scuola nuova o rinnovata o piccole scuole o altre sigle quanto mai povere di fantasia. Se non altro viva mi pare, e me lo si perdoni, vitale!
Ma è chiaro che la nostra sinistra quando sente odore di vita, di benessere, di natura, arriccia il naso e sente odore di bruciato. Lei preferisce i gulag scolastici dove l’imposizione del silenzio, dell’immobilità e della non scelta imperano sovrani. Chissà cosa pensa il nostro dei libertari, tipo Alexander Neill o Colin Ward…
Ma comunque amici e concittadini, il peccato più grande è l’ignoranza per il nostro. Ciò che esplicitamente egli ci mostra e dimostra è che l’educatore è ignorante, non ha curricolo, non ha il dottorato, non ha studiato Froebel e Pestalozzi, non conosce Comenio e non cita nemmeno una volta i grandi pragmatisti dell’educazione, da Dewey a De Bartolomeis (con tutto il rispetto per quest’ultimo per altro, che nel “sistema dei laboratori “propose una bella uscita dalla scuola).
Vorrei però anche qui ricordare che i grandi educatori sono dotati di sensibilità, non necessariamente di preparazione accademica. E che, per converso, e posso dirlo con grande cognizione di causa, grandi informati possono essere dei totali idioti nel relazionarsi con i bambini e i ragazzi e i giovani (nelle università si continua a compiere scempi umani) e fare danni incalcolabili.
Scrittore, lui e lei, l’altro e l’altra che metti alla berlina dalle colonne giacobine, sono educatori, non intellettuali. Scusi se scrivono anche loro ma cerchi di guardare al grande movimento cui partecipano e che è fatto di scuole parentali, unschooling, homeschooling, scuole libertarie private ma povere che potranno anche non piacere (non sono spesso di mio gusto, ammetto) ma che sintomatizzano un bisogno o forse un desiderio di uscire dalla scuola, di farla finita con la scuola che, pubblica o non pubblica, sempre reclusorio resta.
Ma se stai fuori dalla scuola complotti contro la scuola (quella pubblica, del governo e dei suoi stakeholder), inveisce il nostro. A me però viene in mente che uno dei più grandi rivoluzionari del nostro paese, per non prenderne altrove, Franco Basaglia, per cambiare la cura dei cosiddetti malati di mente, dovette sbriciolare le mura dei manicomi e mettere in libertà gente che da secoli era condannata alla prigionia e alla tortura.
Non sia mai che si possa fare un paragone neppure lontano tra manicomi e scuole (diomenes campi, quello lasciamolo fare a intellettualucoli di second’ordine magari francesi), no.
Però…
Comunque sia, i toni, la malevolenza e anche un po’ il gioco facile con cui certi nostri intellettuali sedicenti di sinistra intendono zittire tutto ciò che non è ascrivibile al loro galateo gramsciano (con tutto il rispetto non proprio più dell’ultima ora) e soprattutto in fondo gentiliano, mi fa orrore.
Rendiamoci conto che oggi genitori sensibili (alla buon’ora!) non sopportano più la clausura precoce dei propri figli né il trattamento disciplinare che ogni istituzione crudelmente normativa propone, che uscire all’aria aperta, in natura ma anche nella società, è solo un gesto per restituire bambini e ragazzi ad un’autentica vita sociale e perché no, finalmente anche politica. Personalmente credo che i boschi vadano bene ai bambini ma che poi si debba fare educazione nel mondo e lo dico a chiare lettere nella mia proposta di educazione diffusa (ah, per la cronaca, anch’io ho messo poche note e scarsa bibliografia, non uso quei libri per le mediane universitarie). Essendo che grazie a dio sono diventato ordinario prima di questo delirio valutazionistico, scrivo talora (e certo per editori che pubblicano anche cose diverse da quelle che piacciono alla gente che piace) non per scalare le graduatorie delle VQR o dei GEV ma per mobilitare le persone, per stimolarle e per pungolarle a vedere ciò che non vedono, spesso proprio perché hanno la scuola fuori e dentro di loro e non riescono a immaginare un altro destino per i loro figli, un destino e un’intrapresa magari un po’ più vivi e perché no?, outdoor.