La conversione maternalistica dell’educazione è una nuova dittatura culturale. Il materno, in tutte le sue declinazioni, maternage, protezione, accudimento, cura, socratismo ostetrico, eufemizzazione del conflitto, poussettismo, ha invaso il mondo dei minori.
Per secoli regolati con la bacchetta, l’attenti e l’alzabandiera, tutti potenti simbolici fallici, di cui sia ben chiaro non si deve avere alcuna nostalgìa, i fanciulli ora sottostanno al rigido imperio dell’utero materno con correlati annessi (la dimora, la culla, la tomba).
Con la famiglia affettiva, agli ordini di un matriarcato unilaterale e la scuola materna, i piccoli dell’uomo sono doppiamente accerchiati. Per dirla fuori dai denti non possono neppure più incazzarsi. La rabbia è esorcizzata dalla carezza psicologistica e ogni deviazione ricondotta a un disturbo relazionale. Se un bambino rifiuta la scuola ci deve essere alle spalle una famiglia disfunzionale e subito viene consegnato alle alacri mani di psicologi e educatori dal cuore tenero, che rastrellano il suo edipo o lo riempiono di tranquillanti, più o meno partoriti dall’industria farmaceutica.
Madri che insorgono se il figliuolo torna a casa con una sbucciatura e maestre che vigilano affinchè il bambino resti lindo come un lenzuolo talamico. Madri sempre addosso al bambino, che vorrebbero poterlo scrutare anche mentre è a lezione e insegnanti così ansiosi e confusi che rincorrono il bambino anche quando vuole andare a fare la pipì. Madri e semipadri, con cani e gatti al seguito, unici interlocutori ammessi, perché innocui, nelle simpatiche gite del week-end ben lontani da ogni fosso e da ogni cima.
Il terrorismo matristico è fors’anche peggio di quello patriarcale che almeno produceva degli autentici Franti e ispirava la battaglia.
Le pedagoghe osannano l’unico farmaco dell’infanzia: la cura, spesso frutto di una pessima interpretazione del povero Heidegger, che intendeva ben altro (cioè l’essere condannati alla cura come faticosa preoccupazione dell’esserci) e, via un fenomenologismo imbevuto di buone intenzioni, l’hanno trasformata nel trappolone dell’ascolto benemerito e delll’immediata attenzione ad ogni sopracciglio appena inarcato.
Il bambino è radicalmente deprivato del rischio, al riparo di una politica preventiva che attende solo di potergli allacciare i sandalini, con dispositivi normativi che gli impediscono perfino di razzolare nel prato o di fare capriole troppo azzardate. L’igienizzazione che lo mette al riparo dai sani microbi della crescita e la moltiplicazione dei provvedimenti vaccinali, ne fa una sorta di pingue bebé del tutto incapace ormai persino di andare in bicicletta.
I parchi gioco gommati dove gli scivoli durano un nanosecondo e le altalene hanno un raggio di oscillazione del 10%, diventano una sorta di casa delle bambole dove il divertimento (imperniato sull’incremento del rischio) è pari a zero, in compenso le mamme possono bivaccare pacifiche salvo quando un “brutto bambino” mena uno sano spintone al loro pargoletto. In tal caso il conflitto infuria tra le madri mentre i bambini ormai del tutto rincoglioniti le guardano attoniti.
Le madri assistono ai compiti dei figli come indemoniate e insorgono ad ogni minimo patimento inflitto dalla vita alle loro creature, i papammi, convertiti al monoteismo materno, non meno.
Il tabù qui è ovvio: è la parte coriacea della vita, l’attrito con la materia, il libero corpo in libero mondo, la sporcizia e la ferita, tutti sacrosanti congegni che iniziano il piccolo alla grana non certo liscia e pietosa del vivere. Invece di lasciarli scorticare sulle pietre invitanti dell’avventura, restano eternamente imprigionati nel castello incantato della fata buona, la loro cameretta, dove incantesimi e canzoncine li abituano a diventare eunuchi da subito.
L’educastrazione materna fa del bimbo e poi del ragazzo un eterno beota incapace di affrontare anche solo la scalata di un muretto con il contrappasso che prima o poi, pur di sfasciarsi la testa, prenderà la via pubblicizzata del parkour o quella meno mercificata della rissa di strada.
E ci si raccomandi, non allontanarsi dalla dimora famigliare o da quella scolastica per prendere la strada, niente di più vile e terrificante della strada, con i suoi maniaci, pervertiti, ladri di bambini e soprattutto pericoli. La strada è il vero nemico. Piuttosto il bosco, il parchetto, il museo, la ludoteca, la comunità, e soprattutto la classe, tra i totem dell’educazione maternalistica quello inamovibile, con la sua prevedibile popolazione misurata e soprattutto l’impossibilità di evaderne a suon di registri elettronici, cancelli videocontrollati e psicologi sguinzagliati ovunque.
Gli adolescenti così cresciuti mantengono un dialogo ininterrotto con i genitori, anche a trent’anni, con il dubbio merito di tenerli informati di tutto e di fornirgli tutti gli strumenti per inibirgli qualsiasi trasgressione anche solo in pectore.
Non più conflitti (o meglio tanti piccoli conflitti a bassissimo voltaggio, che presto si trasmutano in coccole), non più rischi, non più trasgressioni, non più ribellioni, non più fughe, non più litigi virulenti, si cresce in un grande ventre materno da cui, ovviamente, mai più si uscirà, una volta che il cambio sarà dato dall’entertainment sociale predisposto proprio per evitare qualsiasi scossa al pargolo impenitente.
Terminati i ragazzi a rischio, estirpate le sacche di devianza, inoculato il siero della buona condotta (sono i figli a predicare ai genitori di non bere e di non fumare e chissà, in futuro, anche di non fare sesso), abbiamo la gioventù che ci meritiamo: obnubilata, vulnerabile, molle come la bambagia e la pasta di Fissan, sempre pronta a denunciare chiunque provi, anche debolmente, a traviarla.
A fare da grande legante teoretico del nuovo poussettismo (dal francese, cullismo, che fa rima con culculo (Gombrovitch) e può meglio tradursi con sindrome della ninna nanna) è il socratismo secolarizzato al tempo della hiddish Mama (ben rappresentata da Woody Allen). Tutto sta nel dialogo, il sapere ce l’hai già dentro, si tratta solo di facilitarne il parto, conosci te stesso ma con un abile maieuta che ti manipola a suon di carezzine.
L’incredibile fortuna del socratismo pedagogico ha fatto a pezzi la crucialità dell’esperienza non in vitro, la necessità dello scontro con il lato duro della realtà e soprattutto il godimento di evadere dalla custodia di tante mamme più o meno travestite da pedagoghi per prendere l’ultimo treno dell’avventura, quello che parte per il paese del non dove.