Al netto del dato incontrovertibile che, nel contesto attuale, togliere i compiti a casa ai ragazzi è un atto di liberazione, occorre a mio giudizio porre la questione in termini un po’ più ampi.
Anzitutto: si tratta di una liberazione solo e in quanto si tratta di una vessazione che prolunga la vessazione scolastica in quanto tale al di fuori delle sue mura. Se la scuola non fosse vessatoria probabilmente non lo sarebbero neanche quelle cose che chiamiamo compiti a casa.
Essi sono nel nostro immaginario un aggravio di fatica ma, se le cose stessero in altro modo, sarebbero molto meno scandalosi.
Quando per esempio si dice che ciò che si fa a scuola dovrebbe rimanere circoscritto nel perimetro scolastico si dice, a mio giudizio, una cosa molto grave sotto il profilo educativo. E non si fa altro che sancire uno (tra i tanti) dei motivi che rendono la scuola tutt’altro che un’esperienza educativa. E cioè la scissione tra istruzione e vita, cosa orrenda quant’altro mai.
Ma veniamo al punto: se, e dico se, l’educazione/istruzione fosse qualcosa capace di suscitare l’unico elemento che la può rendere sensata (oltre che efficace), e cioè la passione, neppure ci sarebbe bisogno di assegnare i compiti, perché l’appassionato continuerebbe di sua spontanea volontà a esercitarsi o ad approfondire ciò che lo appassiona. E’ quello che vediamo in ogni attività capace di catturare davvero il piacere di imparare o comunque il desiderio di migliorare che è insito in ogni apprendimento autentico. Chi suona uno strumento per sua volontà, chi impara uno sport, chi vuole creare qualcosa, una poesia, un dipinto, un’opera, non ha certo bisogno che qualcuno lo obblighi a dei compiti. E’ lui stesso che vuole migliorare attraverso quella cosa impegnativa ma appassionante che è l’esercizio.
Ora è chiaro che il cosiddetto compito a casa diventa vessatorio nel momento in cui riguarda cose, come quasi tutte quelle che si fanno a scuola, indesiderate, lontane dalla vita dei bambini e dei ragazzi e non appassionanti.
Non voglio tornare a dire perché la scuola non può, per sua struttura, indurre che molto raramente un apprendimento per passione. In breve non può perché è un dispositivo oppressivo, scisso dalla vita dei suo destinatari, concentrazionario, omologante e sanzionatorio. Ma ne ho parlato a iosa in molti miei scritti.
Quindi noi ci troviamo nella situazione di dover allentare il carico vessatorio per pura emergenza, come una sorta di atto caritatevole. Ma deve essere chiaro che non è l’esercizio, l’approfondimento, la sperimentazione libera che è in questione. Questi sarebbero segnali che il desiderio di conoscere e di imparare è stato suscitato, come dovrebbe essere in una istruzione appropriata all’età dei suoi destinatari, un’istruzione esperienziale nella quale ciò che si sperimenta sia all’altezza delle curiosità, degli interessi e delle effettive risorse dei bambini e dei ragazzi.
Ora noi siamo lontani anni luce da ciò e a poco valgono le battaglie di chi come me e altri cerca faticosamente di battersi per far cadere le mura scolastiche, di far cadere la scissione terrificante e insostenibile tra educazione e vita. Avendo peraltro ben chiaro che a questa caduta deve poi corrispondere un impegno sociale molto più diffuso e articolato nel far sì che opportunità di esperienza vengano create e disseminate nel concreto della vita dei bambini e dei ragazzi perché possano imparare nutriti dal desiderio di fare cose o di conoscere cose o di vivere cose che siano all’altezza delle loro capacità ma anche capaci di trascinarli appassionatamente come ogni bambino e ogni ragazzo non massacrato dalla plumbea didattica scolastica dovrebbe poter conoscere, fare e vivere.
Ma, come detto, anche grazie ad un mondo che ha introiettato massicciamente la forma scuola come l’unica in grado di garantire apprendimento (con che risultati è sotto gli occhi di tutti), siamo molto molto lontani da ciò e continuiamo a annichilire la sana voglia di conoscere, di partecipare e di fare che ogni piccolo uomo ha in dotazione almeno fino a che non venga sabotato da un mondo adulto distratto, a sua volta profondamente accecato dallo stesso trattamento e che continua a credere in una società dove vita e lavoro, vita e istruzione, piacere e fatica siano poli scissi impossibili da integrare.
In questa luce, torbida luce ahinoi, togliere i compiti ha un senso. Ma è solo un inizio di un’opera che deve rendersi consapevole che ciò che va posto in discussione è la struttura profonda, disfunzionale, carceraria ma soprattutto separata da ciò che è vitale che ogni edificio scolastico in quanto tale rappresenta. E che ancora oggi mi pare resista nell’immaginario educativo della larghissima maggioranza degli scolarizzati, e che resisterà fintanto che non avremo reimparato a vedere bambini e ragazzi e a vedere il mondo inospitale, per loro e per noi, che abbiamo creato.
E deciso di mutarlo radicalmente.
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Una riflessione da insegnante. La scuola non è molto diversa da una palestra (o da una scuola di violino o di scacchi). Praticando con regolarità e costanza è possibile raggiungere degli ottimi risultati: un corpo muscoloso, una salute migliore, un buon equilibrio fisico e mentale. Ma per ottenerli ci vuole molta disciplina: gli esercizi sono faticosi e noiosi, qualsiasi tipo di fitness si voglia praticare la strada è sempre la stessa. E sono “inutili”: non mi serviranno di certo nella mia professione, anche se spesso un corpo allenato aiuta, pur non essendo sufficiente.
L’equivalente scolastico della palestra porta ad evere una mente pronta, profonda ed acuta. Piena di contenuti perfettamente inutili alla professione, anche se se spesso un intelletto allenato aiuta, pur non essendo sufficiente.
Da 10 anni il sistema istruzione, costretto a seguire linee che provengono dall’alto, illude gli studenti che si può tutti riuscire ed essere bravi, anche senza esercizio: con che risultati è sotto gli occhi di tutti, anche se si omette di dire che questo è la conseguenza dell’adozione di metodi didattici fallimentari che i ministri, uno dopo l’altro, impongono come l’unica verità (chiedendoci di buttare via tutta la nostra esperienza di professionisti della scuola) quasi fossimo sotto un regime sovietico. La scuola delle competenze, che vuole tutto divertente, applicabile e utile, ha creato la generazione di studenti più incompetente che si sia mai vista.
Quindi come in palestra, dove l’istruttore assegna gli esercizi dando la garanzia che seguendo un percorso con disciplina il risultato si ottiene, anche a scuola il professore assegna i compiti. Non certo per dispetto, ma perchè l’applicazione personale, a casa, è fondamentale. Certo non si può pensare che solo parlando con l’istruttore si diventi allenati e forti… ci vuole esercizio.
L’unica differenza tra scuola e palestra è la scelta. Io vorrei che non ci fossero obblighi e che a scuola andasse solo chi ne ha davvero voglia… gli altri possono stare tranquillamente senza istruzione, naturalmente prendendosi la responsabilità delle conseguenze senza poi lamentarsi più avanti. Senza compiti a casa e senza stress… d’altronde il genere umano ha vissuto epoche intere nell’ignoranza (ovviamente con una qualità di vita congua al livello di istruzione).
Gentile Marco, condivido in pieno l’idea che non si impara senza esercizio. Tutto sta a dimostrarlo. Il problema è a monte. Si tratta della motivazione. E la motivazione non la si guadagna con l’imposizione. La scuola è una struttura impositiva in tutti i suoi elementi e la motivazione è l’ultimo dei suoi risultati. Tutto qui.
Sul lasciare a casa gli studenti poco motivati non possono invece essere d’accordo. Rimarrebbe deserta. Occorre cambiare la struttura, da cima a fondo. Avendo in mente bambini e ragazzi e non impassibili enciclopedie e dispositivi penitenziari. Un cordiale saluto. PM