Vivere e morire nel tempo presente (annotazioni)

Vivere e morire nel tempo presente (annotazioni)

Ciò che leggo in questi giorni post-Genova mi dà sinceramente la nausea. Anzi, proprio un senso di schifo (e probabilmente mi sarà sfuggito qualcosa di meglio sicuramente). Ma davvero la tragedia di Genova riesce solo a innescare dibattiti furiosi e confusi sulle responsabilità, sulle forze politiche che han visto e non han visto, sugli imperi economici che avrebbero dovuto o meno?

Non riusciamo a pensare ad altro, schiacciati su una vita disumana che è quella che viviamo ogni giorno senza riuscire a prendere un minimo di distanza?

Ma noi crediamo davvero che la tecnica, la scienza, l’ingegno umano ci salveranno una volta per tutte dalla morte?

Non è forse il caso, di fronte ad un evento, questo come tanti altri intendiamoci, di interrogarci una volta di più, dal momento che mi pare ce ne sia bisogno, sul senso delle nostre vite? Sulla vita e sulla morte? Sulla ragione e sull’irragione?

Non ci chiede un evento come questo di fermarci e domandarci dove stiamo andando? Ancora una volta? Come tanti eventi analoghi hanno provato a fare senza sortire alcuna risposta all’altezza della questione?

Non dovremmo raccoglierci in silenzio e onorare il lutto dei prossimi dei morti senza intasarlo con il nostro chiasso inutile?

E se invece uno perde il controllo dell’auto e finisce in una scarpata dobbiamo prendercela con i guard rail, oppure con la scarpata? Se un ragazzo in motorino scivola sul bagnato e va a sbattere contro un muro e muore, dobbiamo prendercela con il muro?

Se ci ammaliamo di cancro e moriamo dobbiamo prendercela con i medici, con gli ospedali, con chi?

La morte c’è, grazie a dio, e non possiamo evitarla. Anzi, noi stiamo giocando a scacchi con la morte in un modo indegno da molto tempo. Rubando le pedine, spostandole se lei si gira un momento. Ma lei non muore, Madame la Morte, come la chiamava Rilke, lei resta.

Un evento come questo non dovrebbe interrogarci, o meglio l’insulso dibattito che ne è seguito, sul nostro rapporto con la morte, con il male, con il danno? Sulla nostra incredibile insofferenza nei confronti di ciò che è parte fondamentale della vita e che, unico, può indurci ad un atteggiamento di maggiore umiltà, modestia e solidarietà tra noi stessi, come aveva ben visto Leopardi, uno che non aveva mai creduto alle sorti progressive del nostro mondo?

Non ci interroga forse su uno stile di vita folle e forsennato che non smettiamo di considerare il migliore possibile tanto che il nostro problema non è diminuire il traffico di merci pesanti ma aumentare la robustezza dei ponti o sostituirli con un’altra enorme bretella di cemento che si chiama Gronda? Non ci interroga sul come viviamo, sulla nostra fiducia cieca nella tecnica e nella scienza, che certo tanto ci hanno fatto vivere di più (a noi fortunati, si fa per dire, che possiamo diventare stravecchi come il brandy,  che viviamo nel mondo “sviluppato”) mentre altrove la nostra scienza ha fatto sì che tanti altri vivano sempre gli stessi anni e per giunta nelle nostre discariche?

Noi non mettiamo mai in dubbio che la nostra tecnica sormonterà ogni problema, anche la morte. La tecnica è buona e semmai è colpa di qualche mancanza umana se non funziona. Ma la tecnica è umana! Fanno sorridere i dibattiti tra questi supertecnici che parlano di sonde, stralli, verifiche come se davvero potessero padroneggiare le mastodontiche opere che hanno fatto.

Nessuno va d’accordo con quell’altro. La comunità scientifica, la panacea di tutti i mali. Oppure i politici, che si sputano addosso l’un l’altro solo per guadagnare qualche punto di consenso. E dietro di loro la plebe dei social, che si schiera avendo letto due o tre articoli sulla questione se va bene.

Ma i grandi teatri della morte hanno senso per noi soprattutto perché dovrebbero indurci a maggior mitezza, a rallentare, a prendere posizione sì, ma contro i mastodonti, i “mostri” di tecnologia che crescono come funghi. Le torri gemelle ci hanno provato a dire qualcosa quando si sono trasformate in gigantesche torce di fuoco con migliaia di persone dentro. Ma prima ci han provato Hiroshima, i bombardamenti di Dresda, i terremoti (con le famose case non “a rischio sismico”), le alluvioni (con i famosi fiumi non sufficientemente arginati, quando sappiamo bene che ogni argine sarà sempre condizionato alla potenza dell’alluvione e che la temperatura che sale ci condurrà verso alluvioni sempre più devastanti).

Tanti disastri ci hanno chiesto risposte di mitezza (Icmesa, Chernobyl, il camion pieno di gas che è esploso non più di una settimana fa in mezzo a migliaia di persone).

Noi crediamo davvero che la tecnica ci salverà da tutto questo? E non è forse la tecnica che ha costruito i ponti, i camion, le strade, le centrali atomiche, le torri gemelle ecc. ecc.?

Non dobbiamo forse fermarci e, ogni volta che ci arriva un avviso così sensibile, riunirci e pensare a come ridurre l’arroganza del nostro mondo, deragliato da così tanto tempo dai confini minimi che una specie dovrebbe avere in un pianeta così piccolo in fondo. Abbiamo già consumato la nostra riserva di risorse a metà anno, come ci hanno spiegato i tecnici che si occupano di queste cose. Non sarà l’ora di chiedere a gran forza di ridurre le merci, di ridurre i trasporti, di ridurre le alte velocità, di ridurre le autostrade, i centri commerciali, le megaopere?

Intendiamoci, non tanto perché questo ci salverà dalla morte ovviamente, ma perché forse nel frattempo, potremo godere di un’altra vita, una vita più sensata. Una vita in cui quando muore qualcuno anzitutto si fa silenzio, quando qualcuno si ammala si trova il tempo di stargli vicino, quando uno è solo, lo si accudisce, quando i bambini crescono non si mettono in un reclusorio chiamato scuola perché noi abbiamo tanto altro da fare. Un mondo più mite, dove ci sia spazio per il piacere, per la festa come per il silenzio e la tristezza (senza patologizzarla) e molto meno per la produzione e la inevitabile distruzione di merci. Dove ci sia meno spazzatura, meno gas di scarico, meno spaventosi mezzi di trasporto che se vanno fuori controllo seminano morti orribili. Meno di tutto. E più di tutto. E’ solo diminuendo, rallentando, riducendo le infinite stronzate dalle quali siamo assediati che forse otterremo più vita, tempo, tempo per vivere e godere insieme agli altri, non solo per farci concorrenza, odiarci, anche sui social network tra supposti amici.

La nostra terra sta diventando un’immensa discarica, le città sono violentate da gran tempo e, diciamolo, Genova, con le sue bellezze, è stata tra le più violentate del nostro paese (pensate ai mostruosi quartieri dormitorio sulle colline, alla mostruosa densità abitativa dove scorrevano i fiumi e ai mostruosi ponti che sovrastano le case). Niente di nuovo. Avviene ovunque così. Pasolini lo aveva visto bene quando commentava il profilo della città di Orte.

Vogliamo violentare e violentare ancora, con nuove Gronde, nuovi ponti, camion sempre più grossi e feroci, treni che viaggiano a mille all’ora e che hanno sempre avarie perché la loro tecnologia è sempre più sofisticata e incontrollabile?

Immagino le vostre espressioni. Voi, in gran parte, credete davvero che la tecnica ci redimerà dal dolore, dalla morte e dalla fatica. E forse, in una minima parte,             questo è vero. Però non dimenticate che questo mondo della tecnica, della scienza sempre più raffinata, delle malattie debellate, è anche forse il mondo più infelice, umanamente parlando, che si sia visto sulla faccia della terra. E non c’è bisogno di sonde o di doppi ciechi per rendersene conto.

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One comment on “Vivere e morire nel tempo presente (annotazioni)”

  1. Chiara Rendano

    Grazie
    Sono di Genova e in questi giorni in cui piovono sentenze discorsi ipocriti promesse… In cui tutti manifestano uno strano senso di solidarietà dico strano perché chi è solidale dovrebbe esserlo anche nei confronti di chi muore in mare e non solo per chi precipita da un ponte… Ho cercato di creare silenzio intorno a me
    Per cercare il senso di ciò che ci accade intorno… Il suo contributo è pieno di vita anche quando cita la morte e indaga in modo profondo i possibili orizzonti che ci attendono

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