Sempre più spesso mi capita – ma sono diversi anni- di leggere testi, articoli e saggi di illustri ma anche meno illustri intellettuali italiani profondamente scandalizzati da quella che essi definiscono di volta in volta barbarie, degrado, analfabetismo di ritorno, ignoranza abissale, ecc. ecc.. E sempre più con toni apocalittici.
Non cito gli autori, sono tanti e sarebbe ozioso oltre che probabilmente controproducente.
Quello che conta è il cuore delle argomentazioni di tutti questi lai indirizzati al declino di una civiltà evidentemente molto presente ai nostri benemeriti ma che forse resta un pizzico presunta, almeno ai miei occhi.
Va da sé che i bersagli di questa ondata di raccapriccio, che ormai è una sorta di ondata continua che imperversa su giornali, riviste, blog più o meno fighetti, sono in primis i giovani, bersaglio talmente ovvio e usurato da risultare anche un po’ stucchevole ma in generale un po’ tutti, perlomeno tutti quelli che non sono stati approvati dalla congrega dei probi viri in oggetto.
E così ecco il flagello digitale, cui si imputano mutazioni antropologiche spaventose, uno scempio dei costumi e fin delle nozioni stesse di tempo e di luogo, lo scroscio liquido di un tempo la cui liquidità, più che idrica, sembra più assimilabile a quella del liquame di deiezione, il gergo sessualizzato dei giovanissimi e le loro pratiche indecenti e promiscue, lo stato di derelizione e restringimento lessicale cui inclina la lingua madre e anche l’invasione di quelle cugine e concubine, insomma un profluvio di fenomeni terrificanti che solo ad una travolgente apocalisse possono essere imputati.
Ma è davvero così? E soprattutto, prima era meglio? Quale prima poi e quali aggregazioni sociali davano esempi tanto lodevoli da insufflare nelle gote irritate di codesti aristoi il tifone di tanta indignazione?
Temo ahimé che ci troviamo di fronte a un fenomeno tutt’altro che nuovo, ancora una volta. Ma con una peculiarità che forse è davvero contemporanea. Infatti, mai come oggi, tanti, tantissimi, quasi tutti, hanno trovato modo di esprimersi in una civiltà dove il diritto ad esprimersi, in una comunicazione pubblica, è sempre stato ristretto a un numero assai piccolo di approvati talenti.
Cioè, più in soldoni: mai come oggi, l’arena pubblica è occupata, ma i nostri direbbero infestata, da un numero di attori davvero maggioritario, che spazia per età, classe sociale, classe culturale (ahinoi) e, ancor peggio, classe CULTURALE!
Tutti, con quei maledetti e diabolici strumenti digitali, possono dire la loro, con linguaggi ben al di sotto di ogni tollerabilità e con gerghi che corrompono e degradano il volto dell’unica e comprovata dialettica culturale e politica, quella appunto della ristretta élite degli intellettuali.
Piovono pietre, allora, dagli editoriali, dai fondi e anche dalle spalle dei più autorevoli scranni della pubblica opinione, sulle sguaiate uscite di un popolo che, essendo bue, sempre meglio farebbe a tacere e lasciar parlare chi ha strumento e intendimento.
Tempo, spazio, universo, pilastri della saggezza, pilastri della morale, pilastri della lingua materna crollano sotto l’impeto cinghialesco e grufolante di una turba che si fa un baffo di dire la sua a tutti i venti anche con qualche errore di ortografia e qualche volgarità davvero irresponsabile e scandalosa.
Sopracciglia si corrucciano e labbra si storcono di fronte a questo SPETTACOLO immondo e inverecondo.
Per quanto poi, il dilagare del fenomeno digitale, certo diffuso a tutti i livelli sociali, vede soprattutto perpetuamente abbarbicati ai propri telefonini proprio gli intellettuali che tanto strepitano, perennemente in comunicazione con i loro giornali, i loro fan e le liste d’attesa delle loro imperdibili e illuminanti conferenze. Anche se, proprio questi tutori della retta via filologica e civile, non hanno alcun problema a sedersi nei più indecenti talk show a inveire accanto ai peggiori fascisti, ai venditori di ogni ideologia d’impresa purché sia e ai vari bottegai dell’impero del profitto. Lì non hanno schifo, anzi stringono mani, eccome se le stringono! Anche se spesso, nel fragore dei ferri, pure a loro sfuggono periodi maldestri e lacune di congiuntivo tutt’altro che raccomandabili.
Insomma, diciamolo, ancora una volta la spocchia degli intellettuali, atterriti che il volgo metta lingua in un territorio a loro soltanto riservato storicamente, gronda sul mondo.
Per non parlare poi dei poveri giovani, grande e ovviamente irrappresentato mondo, che da sé ben di rado è invitato a esprimersi almeno nei grandi organi di influenzamento, che fungono sempre da stabile capro di espiazione per ogni colpa dei loro genitori.
I quali genitori smanettano a più non posso con cellulari e ipad, salvo poi dire che sono i figli quelli che vi restano aggrappati come al ciuccio salvifico.
A parte il fatto che non vedo come si potrebbe strappare a un ragazzino un giocattolo così affascinante, preparato con cura dall’industria adulta, dal marketing adulto e dalla frequentissima elargizione sotto forma di dono da parte degli stessi adulti. Si dirà, e come impedirlo? Appunto come, e poi anche e perché?
Vogliamo forse negare che si tratta di strumenti incredibilmente appaganti e potenti? Di giocattoli, mi si perdoni il termine, meravigliosi, in virtù dei quali siamo certo controllati e marcati a vista, ma possiamo anche fare, senza muovere il nostro deretano inabituato al moto, sia intervallato che perpetuo, di tutto e di più?
Un’invenzione senza uguali in virtù della quale, per i canali cui siamo addestrati da sempre, quello uditivo e quello visivo, con intermissione di abilità tattili piuttosto basiche, possiamo accedere praticamente alla rappresentazione di tutto ciò che esiste e non esiste ancora o non esiste più attorno a noi? Possiamo accedere a libri, a cineteche, a gallerie, a musei e certo anche a inesauribili ludoteche, pornoteche, e altre teche di ogni genere e grado? Strumenti con cui possiamo manifestare il nostro pur risibile punto di vista su tutto con platee spesso a noi congeniali e affini? Ma non voglio dilungarmi sui meriti di un dispositivo tanto piccolo quanto versatile, non sono un promoter dell’impresa che li fabbrica (il nostro capitalismo avanzato e democratico, si fa per dire).
Voglio solo dire ai miei colleghi, -e anche a me stesso, giacché anche a me è capitato talvolta di predicare sugli sguardi tolti alla contemplazione della nostra incomparabile civiltà per volgersi su una mise en abyme e una versione truccata e manipolabile di una realtà che francamente diventa, e non certo a causa dei telefonini, sempre più invivibile- perché non proviamo a spostare la nostra attenzione su meccanismi ben più violenti, pericolosi e quelli sì degradanti che riguardano la nostra marcia società? E per cui talvolta scorrere una chat tra giovani può essere ben più interessante e proficuo che leggere il blog più raffinato e quotato?
Vogliamo parlare della guerra delle eccellenze, dello sfruttamento dell’intelligenza e creatività giovanile da parte di un mercato che di tutto si interessa tranne che dalla vita di quegli stessi giovano cui indirizza continuamente i suoi strali? Che se dobbiamo processare una cultura è la cultura dell’aristocraticismo, della selezione, della punizione, che esercita alla passività, all’ignavia e all’omertà?
Che occorre imparare a distinguere, a leggere con più attenzione un mondo plurivertice e anche plurilinguistico e multietnico, ben diverso da ogni universo umanistico monopsicoide tanto celebrato quanto finalmente defunto con buona pace di tutti quelli (e sono stati e sono ancora milioni e milioni) che ha trucidato e estinto per far trionfare la sua tronfia e eurocentrica visione?
Che intorno a noi, come è probabilmente sempre stato, non c’è una gerarchia di strati della popolazione con diritti e doveri pensati e calibrati dai sistemi di potere sulla loro posizione culturale, economica e sociale, ma un “rizoma” con molte teste, un’idra, se volete, o un proteo ben difficile da domare ma che forse occorrerebbe cominciare ad ascoltare, per tributare finalmente un qualche valore a un termine tra i più violentati della storia, quello di democrazia? Magari articolando un po’ di più e un po’ meglio le forme linguistiche dell’ascolto, accogliendo meglio il visivo, il tattile e l’immaginativo?
E infine, per ora, e nella sintesi di un pezzo come questo, che i giovani, se davvero sono così sbagliati ma io non lo credo affatto, ma supponiamo che lo siano, lo debbono soltanto alla macchina infernale in cui li abbiamo infilati loro malgrado?