(uscito su Alfabeta2 di ottobre 2012)
Le comari dell’educazione, e tutto il mondo inchinato ortogonalmente ai piedi delle ontoteologie pedagogiche, si scandalizza e si straccia le vesti di fronte al “bullismo”, al fatto cioè che alcuni scolari, gli arruolati loro malgrado alla disciplina scolastica, assumano comportamenti violenti nei confronti di loro pari e, talora, somma colpa inespiabile, anche nei confronti del “corpo insegnante”. I “bulli” sono la feccia scolastica, che se la prende con i deboli, con gli inermi, e che comunque sembra provare godimento nell’infliggere al fragile, al vulnerabile, addirittura al minorato, pene di ogni tipo, ricatti, perversi riti di sottomissione. Gli infami! Che sorridono… E’ pratica consolidata per la verità, di cui già narrava con dovizia di particolari la letteratura ottocentesca, ma anche dopo, si pensi alle pratiche convittuali (e si vada a rileggere al magnifico giovane Törless…), molto simili a quelle in vigore ancor oggi nelle caserme, vere e proprie procedure di iniziazione, ma anche di pura e gratuita sevizia. Il luogo dove tutto ciò però si dà nella sua forma più pura, sebbene nessuno sia tanto avventato da definirlo “bullismo”, è il carcere. Lì la pratica è tacitamente concessa, una specie di legge laterale ma fondamentale, che non fa che replicare in forma più sistematica ma segreta, la legge implacabile della violenza carceraria. Abusi, torture, violenze di ogni tipo che i più titolati nell’ambiente infliggono ai novellini, o, peggio, ai resistenti, ai dissidenti. E’ un codice, che si deve imparare, violenza che replica la violenza dell’istituzione, come in una sorta di emulazione, o forse sarebbe meglio dire di identificazione (con l’aggressore). E certo essere rinchiusi, segregati, sottoposti a disciplina più o meno feroce di certo non aiuta, non lenisce l’urlo dei sentimenti soffocati, repressi, rigidamente normati o interdetti nettamente. Ogni istituzione produce violenza, non c’è scampo. E’ nel suo dna, è il corrispettivo di reazione che deve prevedere alla sua possente spinta di coercizione. Si ritiene forse che la scuola faccia eccezione a questo quadro edificante? Mi pare davvero difficile da sostenere. La scuola obbliga, sequestra, imprigiona, disciplina, norma, punisce. Anzi, se possibile è un luogo di sofisticatissima amministrazione delle pratiche di sorveglianza e punizione, come già illustri studiosi hanno eloquentemente dimostrato. Nessuno si scandalizzi. Anzi, per il vero nessuno si scandalizza. E’ ovvio che sia così. Come si potrebbe, se non attraverso l’uso di un sofisticato sistema di norme e punizioni, radicato ben oltre le mura scolastiche, peraltro, tenere sotto custodia interi eserciti di bambini e di adolescenti che pullulano di pulsioni, di desideri in continua e virulenta metamorfosi, di autentica energia primigenia? Energia corporea, mentale, emotiva, immaginativa? Eppure il bullo fa problema, o come tale viene propagandato. Sebbene sia una sorta di servomeccanismo perfettamente integrato nel sistema. Senza dubbio in assenza del bullo la violenza imploderebbe. Come farla scaricare? Forse con la guerra? C’è violenza ovunque nelle scuole, nel loro reticolo di corridoi, nelle classi, rigidamente inquadrate, nei libri, nelle sedie, nelle “discipline”, che non a caso si chiamano così. Il bullo rispecchia fedelmente ciò che trova. E’ un sintomo, se si vuole, che la nave va, va con la sua consueta violenza, che domanda a sua volta violenza. La violenza per esempio dell’insensatezza (che si incrementa con l’andar del tempo, fino ai livelli elevatissimi di oggidì, quando la scissione tra la proposta scolastica e l’esperienza del mondo appare sempre più netta e incolmabile), almeno agli occhi di molti scolari che frequentano le sue mura. Per molti di loro ciò che si fa dentro le mura, al di là delle norme cui si deve comunque soggiacere a prescindere, diciamo, non ha il benché minimo senso, senso afferrabile, comprensibile, motivato adeguatamente per le loro attese, per i loro desideri, per le loro capacità. E il bullo in fondo, in maniera certo poco elaborata, non fa che ricevere, elaborare (a suo modo) e rimettere in circolo il coefficiente di violenza che circola nel dispositivo scolastico. Ma, come ripeto, tutto questo, che dovrebbe essere in certo qual senso “pacifico” e, dai tutori di quest’ordine, persino guardato con la cinica benevolenza con cui il capobranco guarda la muta dei più giovani azzuffarsi fino alla sfinimento, fa problema. Ma è anche un potente strumento ideologico, perché con la sua denuncia, si mantiene in vita nell’opinione pubblica quel bisogno di repressione in assenza del quale qualsiasi sistema coercitivo rischierebbe di perdere legittimità. Ciò di cui poco o quasi mai si parla è però, in questo quadro, un altro antico, persistente, massiccio, pervasivo, tipo di violenza con le medesime caratteristiche, che circola nella scuola e in luoghi analoghi: quello che mi piace chiamare il “bullismo” degli insegnanti. E mi si faccia venia se qui insisto su una parte, cospicua ma non certo globale, del mondo insegnante. Tutti noi, chi più chi meno, lo ha veduto, lo ha subito, lo ha vissuto negli anni del sequestro educativo. Come non ricordare lo stillicidio di violenze, di abusi, di sottili punizioni servite dai nostri insegnanti, quelli severi ma anche quelli meno, spesso a spese proprio dei più deboli, dei più vulnerabili, dei più inermi? Faccenda che riempirebbe volumi e volumi di un ipotetico “libro nero” della scuola e che, malgrado i mutamenti di rotta della “pedagogia”, almeno in certe sue frange minoritarie, insiste, in forme sempre nuove, sempre più sofisticate. Forse i colpi di bacchetta, le punizioni corporali, i ceffoni, le tirate di orecchi, gli scappellotti, intesi a punire gli irrequieti, gli irriverenti, i “resistenti”, si sono ridotti a poche eccezioni (forse…). Ma certo persistono e si evolvono invece le violenze verbali, i giudizi sommari, i sarcasmi (il “dark sarcasm” della celeberrima canzone dei Pink Floyd), le invettive che prendono di mira senza distinzione i risultati delle “prove”, quanto gli atteggiamenti, i caratteri fisici, la voce, gli abiti, i gesti, le posture, o persino le qualità intime, il carattere, le potenzialità. Quanta umiliazione si patisce in una scuola, spesso ribadita incessantemente, come una sentenza irrevocabile, quante mortificazioni insostenibili, sulla sciatteria, sul disordine, sull’impreparazione, sul linguaggio, sulla “buona educazione”, perfino sul buon gusto! L’esercizio del potere, del potere brutale, del bullo-insegnante è spesso feroce, anche perché somministrato da chi padroneggia le parole, da chi sceglie termini spesso raffinati per marchiare adeguatamente chi non si adegua, chi non arriva, chi resta indietro. I deboli appunto, i più vulnerabili, talora i disabili. Certo oggi ci pensa la psicologia a marchiare in maniera scientifica i “ritardati” di un tempo. Oggi chi non sa leggere non è più un incapace, un fannullone, un idiota, oggi è un dislessico e come tale abbisogna di supporto, di assistenza. Ma in fondo il sostegno non è anch’esso una forma sottile e indelebile di marchiatura, di umiliazione, di degradazione? Essere destinati al sostegno, nel quadro della disciplina scolastica, e cioè in un luogo che è ancora e sempre un luogo di inculcamento, di conformizzazione e di selezione, non è pur sempre una sottile squalifica? Ma sia. Sia un male minore che la scienza prenda il posto dell’insulto e della punizione (benché alla sua ombra l’indolenza insegnante si rifugi troppo spesso per mascherare le sue incapacità). Non è sufficiente. L’edificio scolastico continua a risuonare di catilinarie, di orazioni violente contro i ribelli, contro i diversi, contro i renitenti. L’umiliazione, spesso integrale, addobbata con tutti i crismi e l’autorevolezza miserabile che un insegnante può avere, risuona ancora nelle aule scolastiche. E non meno in quelle universitarie. Quante volte ancora, agli esami, dovremo sentire la tragicommedia di professori tanto arroganti e inconsapevoli della propria personale e immorale meschinità, da apostrofare gli studenti non congruenti alle loro aspettative con i termini dell’umiliazione, dell’insulto, del sarcasmo, della violenza verbale inscusabile pura e semplice? E’ ora di finirla, di ripulire le aule, le scuole e le università da un genere di violenza che, come se non ci fosse già quella prescritta e manifestata dagli orari, dai banchi, dai corridoi, dalle aule, dai libri, dalle prove e così via, non fa che aumentare oltre ogni livello di sopportazione uno spazio già irrespirabile e che, infine, non può che incrementare a sua volta quel bullismo che forse è anche una forma, poco consapevole, degradata, insostenibile ma comprensibile, di ribellione.